Non è la prima volta che un film viene travolto dalle critiche, e circa un mese fa è toccato a Via col vento. Ma come è nata, la controversia sembra essere morta, senza fare troppo rumore. Ma quindi, Via col vento è razzista? O non interessa più a nessuno?
Proviamo a ricostruire la vicenda a mente fredda, ora che le polemiche sterili sono finite e possiamo, si spera, parlarne con raziocinio e calma.
La “censura” di HBO
La HBO aveva rimosso temporaneamenteVia col Vento, per poi caricarlo nuovamente sulla piattaforma di streaming HBO Max con un’introduzione da parte della studiosa Jacqueline Stewart. Un disclaimer per HBO obbligatorio per contestualizzare un film che propone ideali razzisti e che nega gli orrori della schiavitù perpetrata negli USA. La critica si è ben presto divisa in due fazioni, da una parte i puristi dall’altra chi chiedeva a gran voce che anche altre piattaforme prendessero posizione, non solo su Via Col Vento, ma anche con altri film e cartoni “invecchiati male”. Una richiesta che molti hanno accettato di buon grado, da Sky che ha aggiunto dei disclaimer prima dei film considerati razzisti, e Netflix ha recentemente cambiato la descrizione di Via col Vento.
Da cosa è nata la controversia?
Il tutto è riconducibile alla lettera aperta scritta dal regista di colore John Ridley (12 anni schiavo) pubblicata sul The Los Angeles Times. La sua richiesta era chiara: rimuovere dalla piattaforma Via col Vento per affiancarlo a documentari e film che mostrassero e contestualizzassero gli orrori della schiavitù, invece che glorificare il Sud come luogo pieno di grazia e virtù.
Secondo il regista infatti il film glorifica gli Stati del Sud prima della guerra, perpetrando stereotipi delle persone di colore e ignorando le problematiche sociali intorno all’argomento.
Via col Vento, non solo non è all’altezza per quanto riguarda la rappresentazione delle minoranze. È un film che glorifica gli stati del sud prima della guerra. È un film che, quando non ignora gli orrori della schiavitù, fa una pausa solo per perpetuare alcuni degli stereotipi più dolorosi delle persone di colore.
È un film che, come parte del racconto della “Lost Cause” (causa persa) romanticizza la Confederazione in un modo che continua a dare legittimità all’idea che il movimento secessionista fosse qualcosa di più, o meglio, o più nobile di quello che era – una sanguinosa insurrezione per mantenere il “diritto” di possedere, vendere e comprare esseri umani.
L’idea di un disclaimer viene proprio da questa lettera, ed è stata ben presto accolta dalla Warner (che possiede HBO). Il film è stato rimosso, e ora è disponibile affiancato, come abbiamo detto nell’introduzione, da una discussione sul contesto storico in cui è ambientato.
Le controversie: non è la prima volta
Questa però non è la prima volta che Via Col Vento viene criticato aspramente. Già durante la produzione del film ricevette aspre critiche. Lo stesso Selznick, produttore di Via col Vento, ha dichiarato in un memorandum di non avere nessun desiderio di produrre un film anti-neg*o. L’intento infatti era di far passare gli schiavi afroamericani come dei buoni personaggi, dalla parte giusta della storia. Questo però significa tagliare, modificare e censurare alcune parti del libro originale, prima fra tutte la rappresentazione del Ku Klux Klan come un male necessario.
Un gruppo di uomini può andare a punire i colpevoli di un tentato stupro senza indossare lunghi lenzuoli bianchi e senza avere come motivazione principale l’appartenenza a una società.
Le critiche però furono anche esterne, e vari gruppi afroamericani scrissero a Selznick preoccupati per l’adattamento a film. La critica, mossa quasi cento anni fa da un gruppo di Pittsburgh, è molto simile a quella odierna:
Via Col Vento è considerato una glorificazione del vecchio e marcio sistema della schiavitù, che propaganda l’odio raziale e il bigottismo, oltre che incitare al linciaggio.
La paura era che un romanzo contro la comunità nera si trasformasse anche in un film razzista.
Anche Walter White, il segretario dell’Associazione Nazionale per il progresso delle persone di colore (NAACP), scrisse al produttore. Si offrì infatti di mandare degli articoli che mostravano come la visione storica di Mitchell (autrice del romanzo) fosse fortemente parziale e condizionata da bias. Suggerì inoltre di assumere una persona, preferibilmente di colore, per controllare la presenza di errori o false rappresentazioni nel film.
Selznick International però rassicurava il pubblico: nessuno vuole diffondere film offensivi che promulgano il pregiudizio razziale. Il regista inoltre dichiarò che non voleva piegarsi alla visione ristretta del pubblico, sia per una questione morale, sia perché lui stesso faceva parte di una minoranza – Selznick era infatti ebreo – e quindi non era nei suoi interessi promulgare l’odio razziale.
Proprio per attenzione alla “questione razziale” prese in considerazione Hall Johnson, con cui aveva già dei contatti, come suggerito da White, per supervisionare il modo in cui le persone di colore venivano rappresentate durante il film. Lo stesso Johnson – capo del coro Hall Johnson e già collaboratore in The green Pastures e Slave Ship – scrisse a White, rassicurandolo che lui e Selznick avevano le stesse opinioni per quanto riguardava la rappresentazione delle persone di colore.
Mr. Selznick mi ha inviato una copia della tua lettera riguardo Via col Vento, con allegato la sua risposta. Non vedo come la sua risposta potrebbe essere più chiara, e sicuramente ti avrà soddisfatto senza alcuna amplificazione dalla mia parte. Posso però dirti che quando ho accettato il lavoro Mr Selznick e io abbiamo scoperto di essere in completo accordo sugli aspetti della pellicola che ti preoccupano. Abbiamo entrambi deciso, fin dall’inizio e indipendentemente l’uno dall’altro, che nel film non dovrebbe esserci alcuna menzione del Ku Klux Klan e non dovrebbe mostrare alcun tipo di violenza contro le persone di colore.
White comunque rimase scettico, vista la superficialità del libro, che secondo la sua opinione avrebbe reso quasi impossibile creare un film che non fosse inaccurato e dannoso. Alla fine la faccenda si concluse con l’assunzione di due supervisori, entrambi bianchi.
La parola “nigger”
Una delle principali critiche mosse al film proveniva da The Pittsburgh Courier, e riguardava proprio la famigerata “N word”. In quel periodo infatti i film erano sottoposti a un attento scrutinio della censura, e una delle linee guida imponeva che la parola nigger non potesse essere usata da persone caucasiche. La parola darkies, invece, andava bene. Non c’erano però restrizioni sull’uso della parola da parte di attori di colore, e proprio su questo aspetto The Pittsburgh Courier si è soffermato.
Anche una delle attrici, Butterly McQueen (Prissy) non era d’accordo con l’uso della parola, e ha più volte protestato. Le sue rimostranze sono state condivide anche da Hattie McDaniel (Mami), che però era più restia a renderle note per paura di perdere il lavoro, e di non riuscire più a trovare ruoli in futuro.
Alla fine però le proteste sono state ascoltate, e nella versione finale del film non c’è traccia della parola nigger, solamente di darkies e inferiors.
L’endorsement degli attori di colore
Nonostante parte delle rimostranze provenisse proprio dagli attori, le pressioni per mostrare un buon visto alla stampa furono molte, forse proprio a causa di queste lamentele. Russell Birdwell, impiegato nelle pubbliche relazioni di Selznick International, ha infatti incoraggiato gli attori di colore a rilasciare interviste e dichiarazioni a favore del film, proprio per allontanare le critiche di razzismo. È nata così una campagna pubblicitaria di “pulizia” del film, a cui ha contribuito anche Oscar Polk (Pork), che ha dichiarato al Chicago Defender:
Come razza dovremmo essere orgogliosi di esserci sollevati molto al di sopra dello status dei nostri antenati schiavi e che sia lui che i suoi colleghi dovremmo essere lieti di presentarci come eravamo una volta perché in nessun altro modo possiamo dimostrare in maniera così sorprendente dove siamo arrivati in così pochi anni.
Le critiche si sono placate, almeno in parte, anche grazie a Hattie McDaniel, acclamata dalla critica per la sua performance e per aver portato sul grande schermo un personaggio di colore che sì, è uno schiavo, ma è allo stesso tempo presentato come forte, deciso, compassionevole e umano, nonostante rimanessero delle scene un po’ macchiettistiche. Il suo personaggio però rimane uno dei più controversi, e anche criticati, di tutto il film.
Questa azione di marketing però non placò le proteste, che vennero comunque organizzate fuori dai cinema all’uscita del film.
Hattie McDaniel: meglio interpretare una domestica che esserlo
Di tutte queste polemiche quella che più colpisce è rivolta a Hattie McDaniel, l’attrice afroamericana che interpretò Mami. Proprio per questo ruolo McDaniel vinse un oscar come miglior attrice non protagonista: è stato il primo Oscar della storia ad essere consegnato a una donna di colore.
Ma può un riconoscimento dato da un establishment ancora fortemente razzista cancellare le polemiche?
Perché, nonostante si tratti di un avvenimento storico, rimangono molte ombre. Prima fra tutte il trattamento riservato a McDaniel durante la premiazione. Anche durante quell’occasione troviamo delle proteste contro il razzismo organizzate davanti all’Ambassador Hotel, dove si tenne la cerimonia. Una volta dentro ha ritirato il premio (ricevendo una stretta di mani dal collega Clark Gable e un bacio sulla guancia da Vivien Leigh, entrambi bianchi) e ha fatto il suo discorso, in cui esprimeva il suo desiderio di essere sempre un credito alla sua razza. Nonostante abbia vinto uno dei premi più ambiti, però, McDaniel ha rischiato di non poter presenziare alla cerimonia proprio a causa delle leggi razziali in vigore. È stato solo grazie alle insistenze di David Selznick che poté partecipare, anche se a un tavolo separato rispetto agli altri attori. La cerimonia si è tenuta nel 1940, ma solo nel 1959 questa regola è stata cancellata.
McDaniel rimane quindi una figura controversa, da un lato lodata per essere riuscita a conquistare un traguardo all’epoca impensabile, dall’altro criticata per aver fatto parte dello stesso establishment che la segregava a un tavolo in disparte nonostante fosse una delle star della serata.
Uno dei suoi critici maggiori fu proprio Walter White, che abbiamo nominato in precedenza, dato che continuava a interpretare stereotipi razziali senza combattere perché le cose cambiassero, e di fatto erano servi dei bianchi e agenti attivi al servizio del governo nell’oppressione verso i neri. L’attrice infatti non si associò mai ai movimenti di protesta per i diritti civili, e la sua entrata nella Negro Actors Guild of America tardò ad arrivare. Infatti si unì all’associazione solo nel 1947, praticamente a fine carriera.
Un altro suo punto a sfavore fu il suo rifiuto di parlare di politica e di prendere posizione.
Il personaggio di Mami fu controverso quanto l’attrice che lo interpretò: da un lato abbiamo una parte di critica che lo loda, ammirandone la profondità e la forza dei suoi sentimenti, dall’altro chi vede solo l’ennesimo stereotipo della schiava nera dedita alla famiglia che le ha tolto la libertà.
Carlton Moss, sceneggiatore, attore e regista afroamericano, scrisse su The Daily Worker che il film offriva una variegata collezione di personaggi neri piatti che insultavano il pubblico nero, e in particolare il personaggio di Mami risultava particolarmente ripugnante.
E quindi? È razzista?
Come ogni opera Via col ventoè figlia della sua epoca. Prima il libro di Margaret Mitchell – che, a onor del vero, risulta razzista oltre che un po’ cringe agli occhi del lettore moderno – e poi il film, vanno visti con occhio critico e informato. Non possiamo pretendere che opere che provengono da un’altra epoca, in cui il razzismo era istituzionalizzato e legale, si adattino agli standard moderni. Dall’altro lato non dovrebbe nemmeno essere compito della piattaforma di streaming educare lo spettatore con qualche disclaimer e qualche minuto di documentario, questo compito va alla scuola e alla società. Cambiare la descrizione su Netflix o aggiungere qualche documentario all’inizio non cambierà il fatto che Via col vento è nato a causa, e da, un certo contesto sociale, insieme a tutte le brutture che ne derivano. È un’opera di intrattenimento, e in quanto tale influenza, ed è influenzata, dalla cultura che la circonda, ed è inutile creare una polemica del genere per poi dimenticarsene dopo qualche giorno, senza approfondire e cercare di capire le problematiche che l’hanno generata in primo luogo.
In tutta questa polemica si è persa di vista la luna e ci si è concentrati sul dito.
Giornalista pubblicista e Laureata in Lingue e Culture per l’Editoria. Procrastinatrice seriale, vado avanti a forza di caffeina e ansia e in qualche modo sta funzionando. Mi piacciono la lettura, i Beatles, lo Spritz Campari e le maratone (Netflix). Non mi piacciono il caffè annacquato, scrivere biografie e fare liste.
Febbraio è un mese freddo che passiamo con piacere al caldo, in compagnia di grandi storie e personaggi intriganti. E perché non rivedere le serie di Lionsgate+ nominate agli Emmy e agli Oscar, vincitrici di Golden Globes, in costume, drammatiche o comiche, ce n’è per tutti i gusti!
SERIE in arrivo su Lionsgate+ a febbraio
NORMAL PEOPLE Questa serie limitata segue Connell e Marianne dalla scuola al college mentre entrano ed escono dalle vite l’una dell’altra, esplorando quanto possa essere complicato un giovane amore. Paul Mescal è stato nominato per un Emmy (Miglior attore protagonista in una miniserie o in un film) per il ruolo di Connell ed ha appena ottenuto la sua prima nomination agli Oscar (migliore interpretazione di un attore protagonista) per il suo ruolo in Aftersun.
RAMY S1 e S2 Nella prima stagione, Ramy Hassan è un egiziano-americano di prima generazione che sta intraprendendo un viaggio spirituale nel suo quartiere politicamente diviso del New Jersey. Ramy porta sullo schermo una nuova prospettiva nell’esplorare come si vive intrappolati tra una comunità musulmana, che pensa che la vita sia una serie di prove morali, e la generazione dei millenials che pensa che la vita non abbia conseguenze. Nella seconda stagione, Ramy parla della sua crisi di mezza età, delle relazioni passate e della dipendenza dalla pornografia. Ramy Youssef ha vinto il Golden Globe 2020 (migliore interpretazione di un attore in una serie televisiva – musical o commedia) per la sua interpretazione del ruolo principale.
THE ACT The Act segue Gypsy Blanchard (Joey King), una ragazza che cerca di sfuggire alla relazione tossica che ha con la madre iperprotettiva, Dee Dee (Patricia Arquette). La sua ricerca di indipendenza scoperchia un vaso di Pandora, che alla fine la porterà a commettere un omicidio. Patricia Arquette ha vinto un Golden Globe (migliore interpretazione di un’attrice non protagonista in una serie, miniserie o film per la televisione) e un Emmy (migliore attrice non protagonista in una miniserie o film) per il suo ruolo nella serie.
THE GREAT The Great è un dramma satirico e comico – liberamente ispirato da fatti storici – sull’ascesa di Caterina la Grande, che da straniera diventa la governante femminile più longeva nella storia della Russia. La serie è stata nominata ai Golden Globe nella categoria “Miglior serie televisiva – Musical o Commedia” per entrambe le stagioni, e i due protagonisti Elle Fanning e Nicholas Hoult sono stati nominate per i Golden Globe e gli Emmy nelle rispettive categorie di recitazione.
FILM
DAL 1 FEBBRAIO La sceneggiatura del film, scritta da Chris Morgan e Hossein Amini, si basa sulla vera storia dei quarantasette ronin, un gruppo di samurai che nel XVIII secolo si opposero allo shōgun per vendicare l’uccisione del loro daimyō.
DAL 1 FEBBRAIO Un agente della polizia di Los Angeles scopre un segreto sepolto da tempo che potrebbe far precipitare nel caos quello che è rimasto della società. La sua scoperta lo spinge verso la ricerca di Rick Deckard, sparito nel nulla 30 anni prima.
DAL 1 FEBBRAIO Mark Renton ritorna a Edimburgo dopo 20 anni dalla fuga e rincontra i vecchi amici Sick Boy e Spud. Nel frattempo Franco è evaso di prigione e cerca vendetta contro l’amico che l’ha tradito.
Apple TV+ ha annunciato l’acquisizione di “Drops of God”, la nuova dramedy multilingue franco-giapponese di Legendary Entertainment, adattata dall’omonima serie manga bestseller del New York Times, creata e scritta dal pluripremiato Tadashi Agi, con artwork di Shu Okimoto e pubblicata da Kodansha.
Composta da otto episodi, “Drops of God” è interpretata da Fleur Geffrier (“Das Boot”, “Elle”) nei panni di Camille Léger e Tomohisa Yamashita (“The Head”, “Tokyo Vice”, “Alice in Borderland”) nei panni di Issei Tomine ed è prodotta da Les Productions Dynamic in associazione con 22H22 e Adline Entertainment.
Trama
La serie si apre con il mondo della gastronomia e dei vini pregiati in lutto perché Alexandre Léger, creatore della famosa Léger Wine Guide e figura emblematica dell’enologia, è appena morto nella sua casa di Tokyo all’età di 60 anni.
Il compianto Alexandre lascia una figlia, Camille (Fleur Geffrier), che vive a Parigi e non vede il padre dalla separazione dei suoi genitori, avvenuta quando lei aveva nove anni. Camille vola a Tokyo per assistere alla lettura del testamento di Léger e scopre che suo padre le ha lasciato una straordinaria collezione di vini, la più grande al mondo secondo gli esperti.
Ma, per rivendicare l’eredità, Camille deve competere con un giovane e brillante enologo, Issei Tomine (Tomohisa Yamashita), che suo padre ha preso sotto la sua ala protettrice e che nel testamento di Léger viene indicato come il suo “figlio spirituale”. Ma la sua connessione con Issei è realmente solo spirituale?
Produzione
Scritto e ideato da Quoc Dang Tran (“Marianne”, “Parallel”), prodotto da Klaus Zimmermann (“Borgia”, “Trapped”) e diretto da Oded Ruskin (“No Man’s Land”, “Absentia”), “Drops of God” uscirà nel 2023 su Apple TV+, Giappone escluso. La serie è presentata in collaborazione con France Télévisions e Hulu Japan.
Kodansha, una delle più grandi case editrici giapponesi, è stata fondata nel 1909 e a oggi vanta una vasta gamma di attività editoriali. Da sempre impegnata nella promozione della lettura, offre numerosi premi letterari, come il Premio Noma e il Premio Yoshikawa, che riconoscono agli autori di maggior talento i contributi per il miglioramento della cultura editoriale.
Alice in Borderland è serie originale Netflix giapponese basata sull’omonimo manga di Haru Aso. Dopo il successo della prima uscita, la seconda stagione è arrivata su Netflix nel dicembre 2022, per catapultare nuovamente gli spettatori tra i giochi mortali del Borderland, insieme ad Arisu e agli altri protagonisti della serie.
Tra nuovi game e momenti di introspezione
Per fare un veloce recap, Alice in Borderland segue la storia di un gruppo di ragazzi che si sono ritrovati catapultati in una versione distopica di Tokio, dove l’unico modo per sopravvivere è partecipare a giochi mortali la cui difficoltà è determinata da carte da gioco. Con la prima stagione i protagonisti erano riusciti a superare il gioco del 10 di cuori, che aveva creato qualche problema nell’oasi felice che i giocatori erano riusciti a ritagliarsi. È accaduto di tutto, c’erano katane, sparatorie, flashback, momenti di riflessione profondi, e Chishiya che si è improvvisato 5 minutes craft per dare fuoco a Niragi (Dori Sakurada).
Un finale che sicuramente lasciava ben sperare per questa seconda stagione, dove i protagonisti Ryōhei Arisu (Kento Yamazaki), Yuzuha Usagi (Tao Tsuchiya), Hikari Kuina (Aya Asahina) e Shuntarō Chishiya (Nijirō Murakami, per cui tantissimi fan sono diventati accaniti simp) devono superare i game delle figure, rimasti fino a quel momento avvolti dal mistero. La ripartenza non dà tregua ai personaggi, che dopo un breve momento di sollievo si trovano all’improvviso nel game del Re di Picche, dove il Re armato fino ai denti gioca al tiro al bersaglio con loro.
La seconda stagione punta, oltre che a esplorare nuovi game, ad approfondire ulteriormente i protagonisti, separandoli e dislocandoli in giro per Tokio, ognuno con uno scopo preciso in mente. Chi vuole trovare un senso, chi vuole scoprire cosa si cela dietro questi game, chi ancora piano piano sta cedendo e pensa che non sarebbe così male smettere di combattere e rimanere per sempre nel Borderland. Non c’è mai la reale preoccupazione che uno dei protagonisti venga trapassato da un laser, ma ugualmente lo spettatore può rimanere investito dalle situazioni in cui ognuno di loro si ritrova, domandandosi se sarebbe mai possibile sopravvivere a qualcosa di simile – la risposta è che forse noi saremmo morti nei primi minuti del game di Picche, perché non abbiamo la plot armor.
Modi diversi per arrivare alla stessa morale
All’interno della serie, Arisu, Usagi, Kuina e Chishiya sono sicuramente i personaggi più interessanti e quelli che vengono approfonditi di più. Arisu è il protagonista indiscusso dell’anime: partito come disoccupato senza prospettive, nel Borderland si ritrova spesso a essere il leader che trascina, motiva tutti a sopravvivere e trovare un senso nei giochi, dando speranza.
È lui Alice, deve trovare lui la soluzione finale per far uscire tutti dal Borderland e in questa seconda stagione diventa molto più consapevole del suo ruolo. Il suo legame con Usagi è la spinta definitiva che lo porta a perseguire questo obiettivo, anche se i dubbi sono dietro l’angolo. Dubbi che nutre anche Usagi stessa, che invece rappresenta il Coniglio Bianco, un po’ per il nome (Usagi significa letteralmente “coniglio”), ma soprattutto per il fatto che soprattutto in questa seconda stagione Arisu deve continuamente “inseguirla”, perdendola e ritrovandola nel Borderland, cercando di buttare giù il muro che Usagi si è costruita intorno.
Ad accompagnarli ci sono altri personaggi più o meno ricorrenti, alcuni dei quali si pensava fossero morti ma che scoprono all’ultimo di essere anche loro nel cast principale e quindi devono finire i giochi. Tirando le somme comunque, ogni personaggio risulta funzionale a un aspetto diverso della trama e del percorso di Arisu. Alcuni ci riescono in modo più incisivo, altri meno, ma arriva il momento in cui ognuno riesce ad avere un momento di gloria.
La serie ci presenta personaggi che pur incarnando archetipi riescono a risultare complessi e umani, con motivazioni e desideri comprensibili, anche se talvolta discutibili. La seconda stagione ne esplora l’evoluzione psicologica, mostrando come la pressione del gioco possa cambiare una persona e come queste esperienze possano influire sulle loro relazioni con gli altri.
Ogni personaggio diventa portatore di un determinato modo di pensare e reagire alle difficoltà che incontra nel Borderland. Kuina ad esempio, che per l’estetica un po’ ricorda il Brucaliffo, dopo essere scesa a patti col suo passato nella prima stagione, ora riflette sulla necessità di avere con sé compagni di viaggio fidati piuttosto che continuare da sola. Come lei, anche Chishiya intraprende un percorso isolato dal resto del gruppo, sfruttando la sua intelligenza per sopravvivere a game di Cuori e Denari. Nonostante lo scarso minutaggio, il personaggio di Chishiya è tra quelli che per i fan “buca lo schermo“.
Sguardo enigmatico e un po’ strafottente, arrogante e calcolatore (seppur edulcorato rispetto al manga), Chishiya è anche tendenzialmente annoiato e privo di spinte per dare un senso alla propria vita. Mentre Arisu all’interno del Borderline trova una ragione per continuare, Chishiya va ancora con l’auto-pilota, affronta i game ma non riesce a trovare una motivazione profonda. Rispetto alla prima stagione, da Stregatto che osserva la situazione dall’alto, lontano da tutti, in attesa di godersi il chaos che scaturisce da ogni gioco, poco a poco anche Chishiya rimane sempre più investito da Arisu. E alla fine diventa lui stesso protagonista di uno dei momenti più interessanti della stagione, dove comprende finalmente quel senso che gli sfuggiva e intravede la speranza di cui Arisu aveva sempre parlato sin dall’inizio.
Alice in Borderland: una sorta di Squid Game giapponese?
Qualcuno se l’è chiesto e la risposta a questa domanda molto probabilmente è: no. Per quanto entrambe le serie ruotino attorno a un gruppo di persone che, volenti o nolenti, si trovano costretti a partecipare a sfide mortali per sopravvivere, le due opere presentano importanti differenze che riflettono poi anche le culture da cui derivano.
Squid Game ha un’estetica, personaggi e tematiche molto diverse da Alice in Borderland, riprende temi sociali legati all’economia coreana che sono molto cari alle serie tv di questa nazione, e l’approfondimento dei personaggi viene affrontato in maniera diversa. Alice in Borderland è giapponese dall’inizio alla fine: si respira proprio l’atmosfera da anime (solo, in live action), cosa che non rende la serie meno seria e attuale, dal momento che offre anche più momenti di riflessione e introspezione dei personaggi rispetto a Squid Game.
Le due serie sono apprezzabili per ragioni diverse e sicuramente la popolarità di serie tv con tematiche distopiche e sociali ha aiutato entrambe a raggiungere la loro attuale popolarità nel pubblico di Netflix.
Alice in Borderland, la pecca è il finale lento
Anche questa seconda stagione gli autori hanno esplorato ogni tipologia di game (cuori, fiori, picche e denari) e lo hanno fatto rendendo ogni sfida unica e creativa, senza dimenticare la morale di fondo. Insomma, Alice in Borderland non si è fatta mancare di nuovo nulla: giochi ingegnosi, personaggi con incredibili plot armor, momenti romantici, epifanie e un tizio nudo. Un insieme di elementi che in realtà permette alla serie di passare da momenti assurdi e divertenti (per lo spettatore, per i personaggi che stanno per morire meno) a situazioni in cui ognuno si ferma per riflettere a fondo su ciò che rende davvero una vita degna di essere vissuta. Il tutto senza che le scene vengano tagliate con l’accetta, rendendo la visione fluida e mantenendo lo spettatore immerso nel Borderland.
Il difetto della seconda stagione non sono atmosfera o tematiche in sé, ma la velocità con cui viene affrontato il tutto. Se nella prima parte di Alice in Borderland tutto si sviluppa con un ritmo un po’ più incalzante, questa seconda stagione fa il contrario: parte con mitra spianato e tensione, per rallentare inesorabilmente sul finale. Il che può avere senso, dal momento che la storia volge poco a poco al suo termine, eppure non funziona del tutto. Negli ultimi episodi i momenti di introspezione e le scene di circostanza per dare una pausa tra i game vengono dilatati a volte in modo eccessivo. Arrivati sul finale sembra esserci un climax, ma viene tranciato da dialoghi che anziché mantenere il ritmo lo rallentano ulteriormente, facendo quasi arrancare uno dei game più importanti della serie.
Gli ultimi momenti nel Borderland non sono intrisi di adrenalina, ma di grandi riflessioni sull’amicizia e su ciò che davvero ci porta ad andare avanti ogni giorno. Pensieri e dialoghi che portano con sé una morale coerente con la storia e i suoi personaggi, ripercorrendo ciò che è accaduto dall’inizio e dando una chiusa alle sfide affrontate sino a quell’istante. Chi non è amante delle lunghe conversazioni sul senso della vita, però, è avvisato, perché come detto il ritmo cala vertiginosamente e gli appassionati dell’azione pura potrebbero non esserne felici. Viene da chiedersi se c’era un modo per bilanciare meglio lo “spiegone” finale e la tensione che prima di allora era stata centrale per la serie.
Tirando le somme comunque, Alice in Borderland rimane un’ottimo originale Netflix, che è riuscito a vedere la luce in fondo al tunnel delle serie cancellate senza ragione e ha trovato la sua conclusione, andando in pari con il manga. Consigliatissima è la visione in lingua originale con i sottotitoli (così potete simpare meglio per Chishiya) e Reddit aperto sul cellulare, perché tanti stanno ancora speculando su cosa dovrebbe rappresentare il Joker. Idee?