Il re incontrastato di Vikings, serie tv di History Channel, è sicuramente Ragnar Lothbrok. Un umile contadino che riesce a raggiungere il potere grazie alla sua astuzia e forza, oltre che intuizione. A lui è attribuito l’attacco al monastero di Lindisfarne e tante altre imprese, ma chi era veramente Ragnar Lothbrok? È veramente esistito?
La serie tv
Partiamo dal presupposto che, nonostante Vikings sia una serie coinvolgente, ben strutturata e scritta, è ben lontana da essere storicamente accurata. Leggende e miti si intrecciano ad avvenimenti reali, personaggi storici a immaginari, ma è utile per immergersi nel mondo dei vichinghi dell’800, nel periodo che ha letteralmente sconvolto gli equilibri geopolitici dell’Inghilterra.
Nella serie Ragnar Lothbrok è un contadino che, come molti vichinghi, si dedica a razzie e conquiste, ma a differenza degli altri ha un’intuizione geniale. Decide di rischiare tutto e partire verso l’Inghilterra, senza nemmeno sapere dove si trovi esattamente o cosa lo aspetti in quelle terre. Inutile dire che è un successo, e che torna a casa con grandi ricchezze e gloria. Da lì, dall’attacco a Lindisfarne, comincia la sua storia. Eppure nella saga originale non è esattamente così.
La Saga di Ragnarr Loðbrók
Se volete leggere la leggenda di Ragnar Lothbrok vi consigliamo il libro edito da Iperborea: “La Saga di Ragnarr”.
Ragnarr Brache di Cuoio
Se ancora conosciamo Ragnar e le sue imprese è grazie alla saga che ci è stata tramandata principalmente da tre fonti: la Ragnarssaga Loðbrókar (la saga di Ragnarr Loðbrók), Ragnarssona Báttr (il Racconto dei figli di Rganarr) e il nono libro delle Gesta Danorum di Saxo Grammaticus.
La saga, per quanto spesso ripresa, è radicalmente diversa dalla serie tv. Qui Ragnar non è infatti sposato con l’amata Lagertha, bensì con Thora, figlia dello jarl Herrauðr, il quale la promette in sposa a chiunque riuscirà a uccidere un terribile serpente. Il mostro viene sconfitto da Ragnar, grazie a uno stratagemma da cui deriva il suo nome (Loðbrók significa brache di cuoio): indossa dei pantaloni e un mantello di cuoio rinforzati con pece, e grazie a questo espediente riesce a proteggersi dal veleno e dal sangue del serpente.
Sposa quindi Thora e ha due figli, ma non si tratta di Björn, bensì di Eirekr “cappello di vento” e Agnarr. Dopo poco però Thora muore a causa di una malattia, e Ragnarr torna a viaggiare in cerca di nuove avventure. Proprio durante una di queste incontra Kráka.
Kráka
In Norvegia la nave di Ragnar si ferma, e lì i suoi uomini incontrano una donna “senza eguali”, tanto che la sua bellezza li distrae a tal punto da fargli bruciare le vivande che stavano preparando. Allora Ragnar decide di incontrarla, ma solo se lei si presenterà
“non vestita, né nuda; non sazia, né digiuna; e anche che non sia sola, ma neanche accompagnata da alcun uomo”
Questa parte è poi stata ripresa dalla serie tv, e si tratta di una delle più caratteristiche della leggenda, dato che Kráka si presenta a lui vestita solo dai suoi capelli biondi e una rete da pescatore, accompagnata da un cane e mentre mangiava un porro. I due si sposano, ma lei impone di aspettare tre giorni, altrimenti il loro primo figlio nascerà senz’ossa. Il desiderio è tale però che Ragnarr non riesce a resistere, e così il loro primo figlio, Ívar, nascerà con cartilagine nelle gambe, al posto delle ossa, e viene soprannominato inn beinlausi (senz’ossa). Alle sue mancanze fisiche però compensa grazie a una mente brillante e astuta. Dopo di lui nascono Björn “fianchi di ferro”, Hvítserkr e Rögnvaldr.
Le vere origini di Kráka
Negli anni però le cose cambiano, e Ragnar si innamora della figlia del re Eysteinn di Svezia, Ingibjörg. Decide di ripudiare Kráka, ma la voce giunge alla moglie che decide quindi di rivelargli le sue vere origini. Non è figlia di umili contadini, bensì di Sigurðr “Fáfnisbani”, cioè “uccisore del drago Fáfnir”, e Brynhildr, mentre il suo vero nome è Áslaug. Per provare la cosa profetizza che il prossimo figlio nascerà con un serpente nell’occhio, e lo chiameranno Sigurðr. Così accade e Ragnarr decide di non sposare più Ingibjörg.
La guerra in Svezia
Il re Eysteinn, oltraggiato per il rifiuto di Ragnar, rompe l’alleanza. I figli di Ragnar e Thora decidono quindi di attaccare il re, con esiti disastrosi. Entrambi muoiono, ma vengono vendicati dai fratelli e dalla stessa Áslaug, che prende il nome di Randalín (nome adatto a una valchiria). Da qui in poi i figli di Ragnar compiranno grandi imprese e razie, tanto che la loro fama inizierà ad oscurare quella del padre.
La morte di Ragnar
Ragnar, vedendo il grande successo dei figli, decide di partire nuovamente alla ricerca di avventure e gloria attaccando l’Inghilterra. Prima di partire Áslaug gli regala una tunica magica, in grado di proteggerlo da ogni ferita. La spedizione però comincia nel peggiore dei modi e le navi naufragano. Iniziano così le scorribande, ma ben presto si trova ad affrontare le forze del re Aelle, e viene sconfitto. Il Re, ignaro della sua vera identità, lo imprigiona in una fossa di serpenti per cercare di farlo parlare, ma solo una volta tolta la tunica i serpenti lo attaccano, uccidendolo. Prima di morire però Ragnar riesce a pronunciare le sue ultime parole, con cui svela la sua vera identità:
“Strepiterebbero i porcellini se sapessero quello che il verro patisce”
La vendetta dei figli
La saga di Ragnar si potrebbe qui dire conclusa, ma è quasi d’obbligo menzionare la vendetta dei figli. Ívar si finge infatti amico di Aelle, e richiede come pagamento in cambio della morte del padre solamente il terreno che può essere contenuto all’interno di una pelle di bue. Aelle acconsente, e Ívar crea una corda con la pelle, talmente lunga da riuscire a edificare una città al suo interno. Secondo alcune fonti si tratterebbe di Londra, per altre di York. Dopo anni di collaborazione, però, decide di agire. Compra la fedeltà dei vassalli di Aelle e chiama i suoi fratelli con i loro eserciti, che invadono l’Inghilterra e sconfiggono l’esercito (molto scarno) di Aelle. La sua punizione è terribile: decidono di infliggere il supplizio dell’aquila, ovvero di aprirgli la schiena e staccare la gabbia toracica dalla spina vertebrale, in modo da creare delle ali simili a quelle di un’aquila.
Il Ragnar Storico
Nelle Gesta Danorum ritroviamo invece un Ragnar più “storico” e l’autore attinge dalle vite di diversi condottieri e re, unendo fantasia a realtà. Ci sono vari candidati per il Ragnar storico, i principali sono:
Horik I, re danese morto nell’854
Ragnar Lodbork o Reginherus, jarl proprio alla corte di Horik I, che assediò parigi nell’845 (impresa che viene mostrata nella serie tv)
Il re danese Reginfrid, morto nell’814
Il padre di alcuni capi della Grande Armata danese che creò caos e scompiglio nell’Inghilterra nella seconda metà dell’800.
Proprio nella Grande Armata Danese troviamo molti riferimenti a Ragnar, come lo stendardo raffigurante un corvo.
Una cosa è certa, è ormai impossibile ricostruire la storia vera di Ragnar Lothbrok e dei suoi figli, ma la leggenda, anche dopo più di mille anni, riesce ancora ad affascinare migliaia di persone.
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Febbraio è un mese freddo che passiamo con piacere al caldo, in compagnia di grandi storie e personaggi intriganti. E perché non rivedere le serie di Lionsgate+ nominate agli Emmy e agli Oscar, vincitrici di Golden Globes, in costume, drammatiche o comiche, ce n’è per tutti i gusti!
SERIE in arrivo su Lionsgate+ a febbraio
NORMAL PEOPLE Questa serie limitata segue Connell e Marianne dalla scuola al college mentre entrano ed escono dalle vite l’una dell’altra, esplorando quanto possa essere complicato un giovane amore. Paul Mescal è stato nominato per un Emmy (Miglior attore protagonista in una miniserie o in un film) per il ruolo di Connell ed ha appena ottenuto la sua prima nomination agli Oscar (migliore interpretazione di un attore protagonista) per il suo ruolo in Aftersun.
RAMY S1 e S2 Nella prima stagione, Ramy Hassan è un egiziano-americano di prima generazione che sta intraprendendo un viaggio spirituale nel suo quartiere politicamente diviso del New Jersey. Ramy porta sullo schermo una nuova prospettiva nell’esplorare come si vive intrappolati tra una comunità musulmana, che pensa che la vita sia una serie di prove morali, e la generazione dei millenials che pensa che la vita non abbia conseguenze. Nella seconda stagione, Ramy parla della sua crisi di mezza età, delle relazioni passate e della dipendenza dalla pornografia. Ramy Youssef ha vinto il Golden Globe 2020 (migliore interpretazione di un attore in una serie televisiva – musical o commedia) per la sua interpretazione del ruolo principale.
THE ACT The Act segue Gypsy Blanchard (Joey King), una ragazza che cerca di sfuggire alla relazione tossica che ha con la madre iperprotettiva, Dee Dee (Patricia Arquette). La sua ricerca di indipendenza scoperchia un vaso di Pandora, che alla fine la porterà a commettere un omicidio. Patricia Arquette ha vinto un Golden Globe (migliore interpretazione di un’attrice non protagonista in una serie, miniserie o film per la televisione) e un Emmy (migliore attrice non protagonista in una miniserie o film) per il suo ruolo nella serie.
THE GREAT The Great è un dramma satirico e comico – liberamente ispirato da fatti storici – sull’ascesa di Caterina la Grande, che da straniera diventa la governante femminile più longeva nella storia della Russia. La serie è stata nominata ai Golden Globe nella categoria “Miglior serie televisiva – Musical o Commedia” per entrambe le stagioni, e i due protagonisti Elle Fanning e Nicholas Hoult sono stati nominate per i Golden Globe e gli Emmy nelle rispettive categorie di recitazione.
FILM
DAL 1 FEBBRAIO La sceneggiatura del film, scritta da Chris Morgan e Hossein Amini, si basa sulla vera storia dei quarantasette ronin, un gruppo di samurai che nel XVIII secolo si opposero allo shōgun per vendicare l’uccisione del loro daimyō.
DAL 1 FEBBRAIO Un agente della polizia di Los Angeles scopre un segreto sepolto da tempo che potrebbe far precipitare nel caos quello che è rimasto della società. La sua scoperta lo spinge verso la ricerca di Rick Deckard, sparito nel nulla 30 anni prima.
DAL 1 FEBBRAIO Mark Renton ritorna a Edimburgo dopo 20 anni dalla fuga e rincontra i vecchi amici Sick Boy e Spud. Nel frattempo Franco è evaso di prigione e cerca vendetta contro l’amico che l’ha tradito.
Apple TV+ ha annunciato l’acquisizione di “Drops of God”, la nuova dramedy multilingue franco-giapponese di Legendary Entertainment, adattata dall’omonima serie manga bestseller del New York Times, creata e scritta dal pluripremiato Tadashi Agi, con artwork di Shu Okimoto e pubblicata da Kodansha.
Composta da otto episodi, “Drops of God” è interpretata da Fleur Geffrier (“Das Boot”, “Elle”) nei panni di Camille Léger e Tomohisa Yamashita (“The Head”, “Tokyo Vice”, “Alice in Borderland”) nei panni di Issei Tomine ed è prodotta da Les Productions Dynamic in associazione con 22H22 e Adline Entertainment.
Trama
La serie si apre con il mondo della gastronomia e dei vini pregiati in lutto perché Alexandre Léger, creatore della famosa Léger Wine Guide e figura emblematica dell’enologia, è appena morto nella sua casa di Tokyo all’età di 60 anni.
Il compianto Alexandre lascia una figlia, Camille (Fleur Geffrier), che vive a Parigi e non vede il padre dalla separazione dei suoi genitori, avvenuta quando lei aveva nove anni. Camille vola a Tokyo per assistere alla lettura del testamento di Léger e scopre che suo padre le ha lasciato una straordinaria collezione di vini, la più grande al mondo secondo gli esperti.
Ma, per rivendicare l’eredità, Camille deve competere con un giovane e brillante enologo, Issei Tomine (Tomohisa Yamashita), che suo padre ha preso sotto la sua ala protettrice e che nel testamento di Léger viene indicato come il suo “figlio spirituale”. Ma la sua connessione con Issei è realmente solo spirituale?
Produzione
Scritto e ideato da Quoc Dang Tran (“Marianne”, “Parallel”), prodotto da Klaus Zimmermann (“Borgia”, “Trapped”) e diretto da Oded Ruskin (“No Man’s Land”, “Absentia”), “Drops of God” uscirà nel 2023 su Apple TV+, Giappone escluso. La serie è presentata in collaborazione con France Télévisions e Hulu Japan.
Kodansha, una delle più grandi case editrici giapponesi, è stata fondata nel 1909 e a oggi vanta una vasta gamma di attività editoriali. Da sempre impegnata nella promozione della lettura, offre numerosi premi letterari, come il Premio Noma e il Premio Yoshikawa, che riconoscono agli autori di maggior talento i contributi per il miglioramento della cultura editoriale.
Alice in Borderland è serie originale Netflix giapponese basata sull’omonimo manga di Haru Aso. Dopo il successo della prima uscita, la seconda stagione è arrivata su Netflix nel dicembre 2022, per catapultare nuovamente gli spettatori tra i giochi mortali del Borderland, insieme ad Arisu e agli altri protagonisti della serie.
Tra nuovi game e momenti di introspezione
Per fare un veloce recap, Alice in Borderland segue la storia di un gruppo di ragazzi che si sono ritrovati catapultati in una versione distopica di Tokio, dove l’unico modo per sopravvivere è partecipare a giochi mortali la cui difficoltà è determinata da carte da gioco. Con la prima stagione i protagonisti erano riusciti a superare il gioco del 10 di cuori, che aveva creato qualche problema nell’oasi felice che i giocatori erano riusciti a ritagliarsi. È accaduto di tutto, c’erano katane, sparatorie, flashback, momenti di riflessione profondi, e Chishiya che si è improvvisato 5 minutes craft per dare fuoco a Niragi (Dori Sakurada).
Un finale che sicuramente lasciava ben sperare per questa seconda stagione, dove i protagonisti Ryōhei Arisu (Kento Yamazaki), Yuzuha Usagi (Tao Tsuchiya), Hikari Kuina (Aya Asahina) e Shuntarō Chishiya (Nijirō Murakami, per cui tantissimi fan sono diventati accaniti simp) devono superare i game delle figure, rimasti fino a quel momento avvolti dal mistero. La ripartenza non dà tregua ai personaggi, che dopo un breve momento di sollievo si trovano all’improvviso nel game del Re di Picche, dove il Re armato fino ai denti gioca al tiro al bersaglio con loro.
La seconda stagione punta, oltre che a esplorare nuovi game, ad approfondire ulteriormente i protagonisti, separandoli e dislocandoli in giro per Tokio, ognuno con uno scopo preciso in mente. Chi vuole trovare un senso, chi vuole scoprire cosa si cela dietro questi game, chi ancora piano piano sta cedendo e pensa che non sarebbe così male smettere di combattere e rimanere per sempre nel Borderland. Non c’è mai la reale preoccupazione che uno dei protagonisti venga trapassato da un laser, ma ugualmente lo spettatore può rimanere investito dalle situazioni in cui ognuno di loro si ritrova, domandandosi se sarebbe mai possibile sopravvivere a qualcosa di simile – la risposta è che forse noi saremmo morti nei primi minuti del game di Picche, perché non abbiamo la plot armor.
Modi diversi per arrivare alla stessa morale
All’interno della serie, Arisu, Usagi, Kuina e Chishiya sono sicuramente i personaggi più interessanti e quelli che vengono approfonditi di più. Arisu è il protagonista indiscusso dell’anime: partito come disoccupato senza prospettive, nel Borderland si ritrova spesso a essere il leader che trascina, motiva tutti a sopravvivere e trovare un senso nei giochi, dando speranza.
È lui Alice, deve trovare lui la soluzione finale per far uscire tutti dal Borderland e in questa seconda stagione diventa molto più consapevole del suo ruolo. Il suo legame con Usagi è la spinta definitiva che lo porta a perseguire questo obiettivo, anche se i dubbi sono dietro l’angolo. Dubbi che nutre anche Usagi stessa, che invece rappresenta il Coniglio Bianco, un po’ per il nome (Usagi significa letteralmente “coniglio”), ma soprattutto per il fatto che soprattutto in questa seconda stagione Arisu deve continuamente “inseguirla”, perdendola e ritrovandola nel Borderland, cercando di buttare giù il muro che Usagi si è costruita intorno.
Ad accompagnarli ci sono altri personaggi più o meno ricorrenti, alcuni dei quali si pensava fossero morti ma che scoprono all’ultimo di essere anche loro nel cast principale e quindi devono finire i giochi. Tirando le somme comunque, ogni personaggio risulta funzionale a un aspetto diverso della trama e del percorso di Arisu. Alcuni ci riescono in modo più incisivo, altri meno, ma arriva il momento in cui ognuno riesce ad avere un momento di gloria.
La serie ci presenta personaggi che pur incarnando archetipi riescono a risultare complessi e umani, con motivazioni e desideri comprensibili, anche se talvolta discutibili. La seconda stagione ne esplora l’evoluzione psicologica, mostrando come la pressione del gioco possa cambiare una persona e come queste esperienze possano influire sulle loro relazioni con gli altri.
Ogni personaggio diventa portatore di un determinato modo di pensare e reagire alle difficoltà che incontra nel Borderland. Kuina ad esempio, che per l’estetica un po’ ricorda il Brucaliffo, dopo essere scesa a patti col suo passato nella prima stagione, ora riflette sulla necessità di avere con sé compagni di viaggio fidati piuttosto che continuare da sola. Come lei, anche Chishiya intraprende un percorso isolato dal resto del gruppo, sfruttando la sua intelligenza per sopravvivere a game di Cuori e Denari. Nonostante lo scarso minutaggio, il personaggio di Chishiya è tra quelli che per i fan “buca lo schermo“.
Sguardo enigmatico e un po’ strafottente, arrogante e calcolatore (seppur edulcorato rispetto al manga), Chishiya è anche tendenzialmente annoiato e privo di spinte per dare un senso alla propria vita. Mentre Arisu all’interno del Borderline trova una ragione per continuare, Chishiya va ancora con l’auto-pilota, affronta i game ma non riesce a trovare una motivazione profonda. Rispetto alla prima stagione, da Stregatto che osserva la situazione dall’alto, lontano da tutti, in attesa di godersi il chaos che scaturisce da ogni gioco, poco a poco anche Chishiya rimane sempre più investito da Arisu. E alla fine diventa lui stesso protagonista di uno dei momenti più interessanti della stagione, dove comprende finalmente quel senso che gli sfuggiva e intravede la speranza di cui Arisu aveva sempre parlato sin dall’inizio.
Alice in Borderland: una sorta di Squid Game giapponese?
Qualcuno se l’è chiesto e la risposta a questa domanda molto probabilmente è: no. Per quanto entrambe le serie ruotino attorno a un gruppo di persone che, volenti o nolenti, si trovano costretti a partecipare a sfide mortali per sopravvivere, le due opere presentano importanti differenze che riflettono poi anche le culture da cui derivano.
Squid Game ha un’estetica, personaggi e tematiche molto diverse da Alice in Borderland, riprende temi sociali legati all’economia coreana che sono molto cari alle serie tv di questa nazione, e l’approfondimento dei personaggi viene affrontato in maniera diversa. Alice in Borderland è giapponese dall’inizio alla fine: si respira proprio l’atmosfera da anime (solo, in live action), cosa che non rende la serie meno seria e attuale, dal momento che offre anche più momenti di riflessione e introspezione dei personaggi rispetto a Squid Game.
Le due serie sono apprezzabili per ragioni diverse e sicuramente la popolarità di serie tv con tematiche distopiche e sociali ha aiutato entrambe a raggiungere la loro attuale popolarità nel pubblico di Netflix.
Alice in Borderland, la pecca è il finale lento
Anche questa seconda stagione gli autori hanno esplorato ogni tipologia di game (cuori, fiori, picche e denari) e lo hanno fatto rendendo ogni sfida unica e creativa, senza dimenticare la morale di fondo. Insomma, Alice in Borderland non si è fatta mancare di nuovo nulla: giochi ingegnosi, personaggi con incredibili plot armor, momenti romantici, epifanie e un tizio nudo. Un insieme di elementi che in realtà permette alla serie di passare da momenti assurdi e divertenti (per lo spettatore, per i personaggi che stanno per morire meno) a situazioni in cui ognuno si ferma per riflettere a fondo su ciò che rende davvero una vita degna di essere vissuta. Il tutto senza che le scene vengano tagliate con l’accetta, rendendo la visione fluida e mantenendo lo spettatore immerso nel Borderland.
Il difetto della seconda stagione non sono atmosfera o tematiche in sé, ma la velocità con cui viene affrontato il tutto. Se nella prima parte di Alice in Borderland tutto si sviluppa con un ritmo un po’ più incalzante, questa seconda stagione fa il contrario: parte con mitra spianato e tensione, per rallentare inesorabilmente sul finale. Il che può avere senso, dal momento che la storia volge poco a poco al suo termine, eppure non funziona del tutto. Negli ultimi episodi i momenti di introspezione e le scene di circostanza per dare una pausa tra i game vengono dilatati a volte in modo eccessivo. Arrivati sul finale sembra esserci un climax, ma viene tranciato da dialoghi che anziché mantenere il ritmo lo rallentano ulteriormente, facendo quasi arrancare uno dei game più importanti della serie.
Gli ultimi momenti nel Borderland non sono intrisi di adrenalina, ma di grandi riflessioni sull’amicizia e su ciò che davvero ci porta ad andare avanti ogni giorno. Pensieri e dialoghi che portano con sé una morale coerente con la storia e i suoi personaggi, ripercorrendo ciò che è accaduto dall’inizio e dando una chiusa alle sfide affrontate sino a quell’istante. Chi non è amante delle lunghe conversazioni sul senso della vita, però, è avvisato, perché come detto il ritmo cala vertiginosamente e gli appassionati dell’azione pura potrebbero non esserne felici. Viene da chiedersi se c’era un modo per bilanciare meglio lo “spiegone” finale e la tensione che prima di allora era stata centrale per la serie.
Tirando le somme comunque, Alice in Borderland rimane un’ottimo originale Netflix, che è riuscito a vedere la luce in fondo al tunnel delle serie cancellate senza ragione e ha trovato la sua conclusione, andando in pari con il manga. Consigliatissima è la visione in lingua originale con i sottotitoli (così potete simpare meglio per Chishiya) e Reddit aperto sul cellulare, perché tanti stanno ancora speculando su cosa dovrebbe rappresentare il Joker. Idee?